lunedì 1 ottobre 2012

Quel che il cinema deve a Pirandello

Estratto da Eredità contemporanee: il pirandellismo de "La vita che vorrei" di Giuseppe Piccioni, in Aa. Vv. Quel che il cinema deve a Pirandello, Atti del 48 convegno internazionale di Studi Pirandelliani, (a cura di) E. Lauretta, Metauro, Agrigento, 2011:


Laura: «Ma quando devi girare una scena in cui devi piangere come fai? Piangi davvero?» Stefano: «No! Non sopporto quelli che piangono davvero. Recitare non ha niente a che fare con il sentimento o con la sincerità»
Laura: «Si ma se devi piangere... Io non ci riuscirei mai se non pensassi a qualcosa che mi è successo. Le poche volte che ho lavorato mi sembrava di non riuscire a fare certe cose perché non le avevo vissute!» 
Stefano: «Ma scusa se il tuo personaggio deve morire, tu che fai muori davvero?». 
(Da "La vita che vorrei")

Scorrendo la filmografia di Giuseppe Piccioni, regista di spicco nel panorama italiano del cinema d'autore contemporaneo, si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad un cantore dell'epoca moderna, fatta di solitudini che difficilmente riescono a comunicare, di uomini e donne in lotta costante con la quotidianità e in cerca di ridefinire se stessi. Decisamente ancorato al presente, il regista/sceneggiatore ha, però, dimostrato una predilezione tutta particolare verso un certo tipo di tematiche e di personaggi che lo avvicinano a Pirandello. Escluderei la diretta e consapevole ascendenza, convenendo piuttosto con Gian Piero Brunetta e la sua teoria dell'onda lunga di Pirandello nel cinema moderno. Ed anzi l'influenza dell'Agrigentino è, a mio avviso, molto più evidente nella filmografia del regista marchigiano che non nei registi della generazione precedente, nell'Antonioni di Professione: reporter (1975), nel Godard di Questa è la mia vita (1962) o nell'Allen de La rosa purpurea del cairo (1985), come altrove è stato più volte sottolineato...

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