Si può documentare la fantasia? Ha forse voluto rispondere a questa domanda Marco Bonfanti, giovane e talentuoso regista, girando L'ultimo pastore. Rivolgendosi solo in parte al genere documentario, Bonfanti ci impone, fin dal principio, il suo sguardo che, manco a dirlo, coincide con quello dei bambini di Milano che non hanno mai visto un pastore. I piccoli fanno ricorso alla propria immaginazione e alle poche notizie in loro possesso per disegnare (non solo letteralmente) questa misteriosa figura. Nelle inquadrature iniziali sembra di trovarsi davanti ad un orco delle favole più che ad un pastore, che ci apre le porte della sua caverna. Bonfanti ci fa seguire i suoi passi, i suoi gesti, indugia su alcuni dettagli lasciando per un po' fuori campo il suo volto fino a farlo presentare al suo pubblico: “Mi chiamo Renato Zucchelli e faccio il pastore”. Inizia da qui la storia dell'ultimo pastore nomade di Milano. Durante un intero anno dalle montagne alle strade cittadine, dall'inizio alla fine della scuola si dipana la storia di questa resistenza della natura contro la città. Zucchelli cita Celentano e la paura che il verde venga soppiantato dal cemento, racconta dell'antica lingua dei pastori, il gaì, ormai parlato da pochissimi, del suo socio Piero Lombardi, inquietante personaggio che parla con un cane immaginario e ci presenta la sua famiglia, una moglie e quattro figli.
Ma il film racconta molto di più: l'autenticità di una vita secondo natura di contro all'urbanesimo e al consumismo, il centro cittadino e le periferie degradate, il multiculturalismo e l'integrazione. Bonfanti ha avuto la capacità di raccontare, con la semplice storia di un pastore, Milano e l'Italia, senza mai cadere nella retorica e soprattutto l'ha fatto con delle semplici inquadrature, scegliendo di guardare e di farci guardare determinate cose. Il Cinema, appunto!
La musica in funzione narrativa regala dei forti picchi emotivi, che sia Daddy Lollo dei Figli di Madre ignota o che sia Chopin, o ancora le suggestive e splendide composizioni di Danilo Caposeno o Il pastore di nuvole di Luigi Grechi le immagini acquistano una forte valenza simbolica. Finito il film ci resta l'immagine di Renato e Piero, quasi moderni Don Chisciotte e Sancha Pancha, ci restano le 700 pecore che invadono le strade cittadine, ci resta il sogno di un mondo diverso, a cui qualcuno potrà, forse, dare forma.
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